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LA SIGNORA DELLE CAMELIE

Ph. Giulia Lenzi

Debutto: Teatro Fontana, Milano. 14 Novembre 2024

Ciò che non si può cambiare bisogna almeno descriverlo.
R. W. Fassbinder

La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio, testo di sorprendente violenza sociale, ha dato origine ad uno degli “stereotipi” femminili più intensi dell’800 diventando modello di moltissimi prodotti artistici di grande successo: balletti, opere liriche, testi teatrali, film. Nel corso dei secoli l’amore impossibile tra Marguerite Gautier e Armand Duval ha continuato a ripetersi diventando, forse, il più grande mito romantico moderno ma il romanzo di Dumas figlio è piuttosto basato su una storia vera ed ha mantenuto intatta anche tutta la sua brutalità, nonostante le intenzioni reazionarie e moralizzanti del suo autore. E cosi mentre il mito, ripetizione dopo ripetizione, si fa più stucchevole e sentimentale, La dame aux camelias diviene soprattutto la cronaca impietosa di un omicidio sociale, in cui la violenza classista smaschera il romanticismo che l’ha coperta. Uno spettacolo teso tra l’ottocento e l’ultracontemporaneo, che racconta, insieme agli struggimenti e alla nobiltà d’animo della sua eroina, il voyeurismo e la perversione di una società che sfoga le sue tensioni sul corpo della donna. Una storia che continua a toccarci, più di quanto vorremmo.

Per chiudere questa personale trilogia sui miti dell’amore romantico, passata per il romanzo di Lancillotto e la Dodicesima notte di Shakespeare, ho scelto un testo che mi ha sempre sconvolto per la sua ferocia cortese. La Signora delle camelie non fa sconti nel raccontare la sua epoca, muovendosi tra misoginia, classismo, privilegio, patriarcato; è una parabola che se non si fosse travestita da storia d’amore avrebbe potuto accendere le piazze. Roland Barthes scrive in Miti d’oggi che a Margherita Gautier, alienata ma servile, mancherebbe pochissimo per diventare una fonte di critica della società in cui è immersa. Era un invito troppo allettante per lasciarselo sfuggire.
Soprattutto,
Signora delle Camelie è un testo sulla visione. Sul bisogno di vedere tutto, sempre di più. Penso ai prototipi degli uomini del futuro creati pochi anni fa da un’azienda americana: dotati di occhi  enormi, per meglio consumare la miriade di immagini che abbiamo di fronte nell’ultimo secolo, in crescita esponenziale – penso a come il bisogno spasmodico da cui Dumas è attraversato ci abbia colonizzato. Vedere e avere, scopare con gli occhi, possedere. Anche la morte di Margherita è una merce da consumare.
Con
Signora delle Camelie Alexandre Dumas figlio si denuda, racconta- con una sorta di incoscienza, con una limpidità di cui evidentemente si pentirà – il suo rapporto con le donne, l’amore, il possesso. Non si fa sconti. Racconta le sue ossessioni, la sua piccolezza, si ridicolizza. L’unico desiderio che ho avuto, affrontandolo, è stato di non farmi sconti a mia volta. Partendo dal classico, da un sapore riccamente ottocentesco, e scivolando sempre più avanti, sempre più vicino, a me, a noi. Per guardarci.
Giovanni Ortoleva

liberamente tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio
drammaturgia e regia di Giovanni Ortoleva
dramaturg Federico Bellini
scene Federico Biancalani
costumi Daniela De Blasio
musica Pietro Guarracino
movimenti di scena Anna Manella
disegno luci Davide Bellavia
aiuto regia Marco Santi
con Gabriele Benedetti, Anna Manella, Alberto Marcello, Nika Perrone e Vito Vicino
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale, TPE – Teatro Piemonte Europa, Arca Azzurra Associazione Culturale
Spettacolo selezionato da Next – Laboratorio delle Idee per la produzione e programmazione dello spettacolo lombardo

 

PRESS

Ortoleva lavora in ardito equilibrio tra sostanziale fedeltà a trama e ambientazione (anche nei costumi) e una progressiva, implacabile torsione (anche lessicale) che, azzerando lieti calici e struggimenti tubercolotici, rintraccia i sintomi di una malattia tutt’altro che romantica. […] Roland Barthes, d’accordo, e pure Balzac, ma poi Ortoleva si stacca da tutti e mette la firma nitida del regista autore e padrone del gioco squadernando un finale dove a essere chiamato in causa è lo stesso Dumas, per sempre figlio che soccombe alla legge del padre. […] Da vedere.”
Sara Chiappori, La Repubblica

“Intorno alla struggente figura minata dalla tisi della protagonista, fragile ma ostinatamente ribelle, resa sempre con proprietà di accenti da Anna Manella, si muovono in un carosello continuo Nika Perrone e Vito Vicino, gli amici, simboli di un mondo vacuo, mentre Armando, realmente innamorato di Margherita, finirà per soccombere. Tutto è reso da Ortoleva, con felice inventiva, anche attraverso un linguaggio che si imbeve pian piano di contemporaneità, rendendo la vicenda ricca di nuove sfumature.”
Mario Bianchi, Hystrio

“Una macchina perfetta, interpretivamente ed esteticamente”
Chiara Palumbo, Art a part of culture

Arrivando alla fine de La signora delle camelie di Giovanni Ortoleva, oltre al sincero desiderio di ripetere l’esperienza, si ha la percezione che tutti gli altri adattamenti siano ormai irrimediabilmente da leggere come velature di un crimine per sempre reiterato, reso eterno, che chiede di essere messo in mostra con l’ardore e la necessaria ferocia che questo adattamento riesce così brillantemente a dare.”
Nicolo Villani, Birdmen

“Un allestimento dal tono elettro-rock, dall’atmosfera gotica e cupa: l’amore si grida e si brandisce come un’arma distruttiva di qualsiasi simulacro melò e tardo romantico. […] Ortoleva situa i suoi bravissimi protagonisti – Gabriele Benedetti, Anna Manella, Alberto Marcello, Nika Perrone, Vito Vicino – in una scena minimalista, dove la vera protagonista è l’esperienza del metateatro: il palco da cui Marguerite Gautier assiste alla tragedia della sua esistenza diventa la croce cui restare inchiodata.”
Giovanni Luca Montanino, Sipario

La sfida più grande per Ortoleva e il suo gruppo di lavoro è proseguire su questa linea autoriale coraggiosa, ambiziosa, non perché porti in un posto preciso – che ancora non si conosce – ma, al contrario, proprio perché la sua linea è espressione di uno stare in bilico, tra conosciute e sconosciute forme, tra presenti e future possibilità.
Massimo Milella, L’Oca critica